Com’è nato il suo interesse per i film a regia femminile?
I film nascono dal rapporto che c’è tra il produttore e la regista. Per esempio con Alina Marazzi siamo cresciuti artisticamente insieme, siamo amici da quando eravamo ragazzi. Dentro questo rapporto nasce anche il fatto che inizio a produrre i film di Alina. Il lavoro con Alina da un lato guarda molto a uno spazio femminile, ma dall’altro allarga i limiti di questo spazio. I suoi lavori più noti sono per esempio “Un’ora sola ti vorrei” che produttivamente sta molto nel rapporto tra Alina e Gianfilippo Pedote, che allora era il mio socio alla Mir Cinematografica. E’ un’indagine molto ricca e approfondita di un universo familiare. Al film successivo abbiamo lavorato io e Alina, e racconta di come questa dimensione intima diventa pubblica, politica: “Vogliamo anche le rose”.
Il lavoro con altre registe tipo Federica Di Giacomo o Chiara Brambilla nasce all’interno di un sistema di adesione intellettuale. Quello che a me piace, come produttore, del lavoro di determinate registe è il desiderio di forzare determinati limiti. In Italia, non è un mistero, questi limiti sono dati da una condizione di minorità del femminile. Ho provato un desiderio di uscire da limiti del genere, genere inteso anche come cinematografico, e di mettermi maggiormente in gioco, di correre più rischi producendo le donne.
Il genere femminile si nota perché ha uno sguardo diverso?
Il genere femminile si vede talvolta attraverso lo sguardo, si vede talvolta attraverso una modalità di lavoro. Ribaltiamo la questione: a me non interessa lavorare con le donne perché esiste uno sguardo femminile, perché lo sguardo femminile rischia di essere una forma ideologica un po’ vuota, a me come produttore interessa lo sguardo che mette in discussione una serie di rapporti, alcuni dei quali sono fortemente ingiusti. È normale quindi che io talvolta mi avvicini allo sguardo di alcune registe, lo sguardo che mi interessa è uno sguardo, più che femminile, ribelle. A volte questa ribellione può essere estremamente elegante, estremamente colta, come nel caso di Alina, o può essere apparentemente molto indiretta come nel caso di Federica Di Giacomo.
Il problema delle registe donne sembra poco interessante per le istituzioni. I dati statistici dicono che lavorano prevalentemente gli uomini.
In Italia non c’è attenzione per questo problema. Adesso, con la nuova legge, c’è qualcosa di vantaggioso per la produzione femminile, però la cultura italiana non ha mai dato grande peso, riconoscimento alle donne. Il cinema è un incrocio fra la nostra cultura visuale e quella letteraria e se guardi cos’è la nostra cultura visuale abbiamo artisti che rappresentano il femminile in maniera oggettuale, e la nostra letteratura ha avuto grandissime scrittrici però sempre considerate di serie B. Io invece penso che sia necessario promuovere la produzione femminile. Il fatto che ci sia più accesso alle donne nel mondo del cinema non ci regalerà film migliori, ma ci darà la possibilità di avere film migliori fatti da donne.
Il cinema è quello che si vede e quello che non si vede. È una struttura in cui la parte bassa della piramide molto spesso è femminile, tutti quei lavori da “proletariato cinematografico” sono svolti da donne. Senti che c’è una marcia in corso, verso l’alto, e mi auguro che questa vada avanti. Il cinema, quando è buono, fa sentire quello che si muove sottopelle nella società, e nella nostra società si sente un desiderio di maggiore rappresentanza femminile.
Parliamo della potenzialità artistica delle donne. Prima della produzione di un’opera c’è lo step della formazione. Qual è la sua visione a riguardo?
Nel cinema non c’è solo un discorso di genere, ma anche di classe. Fare cinema in Italia è ancora appannaggio della classe medio-alta della società e quindi vuol dire che le donne socialmente svantaggiate sono doppiamente svantaggiate. A me interessa molto il lavoro che stanno facendo alcune scuole, alcune gratuite, mi interessa il discorso della formazione. È importante dare maggiore accesso alle ragazze che non hanno i mezzi. La cultura accademica e cinematografica italiana, secondo me, non ha ancora metabolizzato il bene delle potenzialità del femminile. Non sto facendo questo discorso per dire che dovremmo produrre opere femministe, dico che dovremmo produrre opere che aiutino la società nel suo insieme, ma la contraddizione sul genere in Italia è ancora irrisolta. E infatti tanto cinema popolare italiano è un cinema profondamente anti-femminile, perché gli stessi maschi che sono rappresentati sono la caricatura del maschio italiano. Sono stereotipi di figli non cresciuti di madri insicure e oppressive. Siamo sempre incastrati lì.
Cosa ne pensa delle produttrici italiane?
Oggi alcuni dei migliori produttori sono donne. Incominciano a essere diverse le produttrici importanti nel cinema italiano, e sono di prima grandezza. Non vorrei sbagliare, ma mi sembra manchi una dimensione come in Francia, in Inghilterra, nei paesi nordici, negli Stati Uniti, identitariamente femminile, ovvero produttrici donne che fanno cinema di donne.
(a cura di Maria Ester Equi)