Sguardi Altrove intervista Claudia Mollese

Ciao Claudia, hai 34 anni e nel 2015 hai esordito con il tuo primo documentario dal titolo “Amara”. Quali erano le tue aspirazioni prima di esordire e da dove nasce la tua passione per il cinema.
Ho l’impressione che la passione per il cinema sia legata alla necessità di costruire le cose. In questo caso il mio mondo interiore, intimo. Come un’outsider, fuori da un circuito che può essere quello del cinema-industria. Il cinema documentario penso che mi abbia attirato in maniera incosciente perché mi sembrava uno spazio di libertà possibile rispetto al cinema-industria, che per me è in qualche modo il cinema che produce, fabbrica, quello legato alle leggi economiche, che implica schiavitù. Non mi piace fare la separazione fra cinema del reale e documentario, tra l’irreale e il reale, però nel cinema della realtà quello che mi attirava era questa forma di libertà. Ed è nato il mio rapporto con il cinema per quella casualità della vita fatta di causa-effetto. Tutto è passato dalla passione di avere una telecamera in mano, dalla possibilità di avere un filtro tra me e il mondo, una membrana che riduce o amplifica il rapporto con il mondo. Perché comunque il cinema è fatto di macchine e io non sono passata dalla sceneggiatura, ho pensato con una telecamera, un microfono, un treppiede. La telecamera è diventata una specie di protesi.
Il tuo percorso di studi è singolare, ho visto che hai studiato prima economia e poi antropologia.
Mentre studiavo economia sentivo che mi mancava un linguaggio. In quegli anni ho capito che dovevo trovarlo per canalizzare il rapporto critico col mondo e sono arrivata al cinema. Ho fatto antropologia visiva a Parigi, studiando con un allievo di Jean Rouch, e durante il corso ho vinto una borsa di studio per “Amara”. Sono quindi tornata a Lecce a girare il documentario che mi ha tenuta occupata per due anni. Non ho seguito il percorso di produzione classico, però è un po’ anche il mio modo di fare. Fa un po’ parte del mio rapporto anarchico con il mondo.
Il problema delle registe donne nel cinema sembra poco interessante per le istituzioni. I dati statistici dicono che lavorano prevalentemente gli uomini. Perché secondo te i dati confermano che i film premiati sono prevalentemente firmati da uomini?
Stanno cadendo dei veli, sta a noi toglierli. Sempre di più. Il mio desiderio profondo è superare le dicotomie uomo-donna, le dualità. In noi abitano tante persone. Noi siamo in un mondo raccontato da uomini, quindi viviamo un immaginario che è determinato dall’immaginario maschile. Storici, filosofi, registi, noi viviamo in un mondo costruito dagli uomini. Le donne sono di solito montatrici, scenografe. Si sono generate delle categorie, a livello estetico, a livello di contenuti. Per cambiare, liberare, aprire, lasciare spazio allo sguardo degli altri, al mondo degli altri, bisogna far cadere queste categorie, queste barriere. E anche lasciare spazio a un’altra parola, a un altro immaginario.
Come ti appare oggi la prospettiva di lavorare come documentarista?
Una battaglia.
Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente eppure sono la colonna vertebrale della società, diceva Rita Levi-Montalcini. Pensi che ci sia un modo efficace per superare la disparità fra uomo e donna in ambito cinematografico?
Lo potrò dire dopo che l’avrò vinta questa battaglia.
(A cura di Francesca Fracasso)
 

Foto (c) Francesco Conti

Foto (c) Francesco Conti