
Ciao Chiara, hai 35 anni e nel 2006 hai esordito con il tuo primo documentario “Casa Plastica”. Il cinema è un settore artistico ancora fortemente dominato dagli uomini, in cui tu sei riuscita a farti strada come documentarista… ma quali erano le tue aspirazioni prima del tuo esordio alla regia?
Dunque, la passione per il cinema ce l’ho da sempre. Sono super appassionata della commedia americana degli anni ’50 e di Billy Wilder, da quando avevo 10 anni sono cresciuta vedendo i suoi film che mamma registrava in VHS, film che poi si discostano totalmente dalla direzione che ha preso il mio lavoro. A quell’età non avevo minimamente idea di cosa fosse un documentario, il cinema del reale è infatti una cosa che ho scoperto tardi. Poi all’università ho iniziato a studiare cinema e mi sono appassionata a questo linguaggio artistico che è poi il mio. Diciamo che oggi le persone iniziano ad avere una vaga percezione di cosa sia un documentario, credo che da questo punto di vista le cose in Italia siano un po’ cambiate, probabilmente grazie all’incombere della TV satellitare, con programmi quali National Geographic, Discovery… invece, quando ho iniziato, i documentari erano più stile Superquark. Nel frattempo, il documentario stesso è cambiato, ha preso le forme della finzione, nel senso che sono nate delle forme molto ibride tra cinema di finzione e cinema del reale. Posso dire che dagli inizi ad oggi c’è stata una sorta di metamorfosi delle forme cinematografiche, ma si è allargato anche il concetto di storia, intesa come storytelling. E poi oggi la visione dell’autore amplifica la visione reale del documentario.
Cosa ti ha portato a girare “Casa Plastica”?
Mah, diciamo che è arrivato un momento in cui ho avuto l’intuizione di raccontare l’idea che da sempre volevo esprimere, adottando il linguaggio documentaristico, e ho iniziato a girare “Casa Plastica”, una casa di plastica che aveva vissuto molte vite. Secondo me il documentario è una forma espressiva meravigliosa, sono sempre stata una persona interessata alla forma documentaristica, inoltre sono molto curiosa delle dinamiche delle persone, del sondare l’animo umano e questi sono i motivi principali che mi spingono a lavorare tanto con il personaggio, con cui poi mi confronto. Quando ho finito di girare “Casa Plastica” avevo 22 anni, mi sono lanciata in un’avventura e devo affermare che, adesso, conoscendo un po’ più il sistema, ne sento la nostalgia. Sono le prime volte, come dire, irripetibili. Oggi, a distanza di 11 anni dal mio esordio, c’è una diversa consapevolezza dello strumento e delle tecniche di lavoro, frutto anche di anni di esperienza, però nutro sempre una certa tenerezza per “Casa Plastica”.
Il fatto che le donne registe siano ancora una minoranza sembra poco interessante per le istituzioni. I dati statistici dicono che lavorano prevalentemente gli uomini, come se il cinema fosse riservato solo a loro…
Be’, credo che innanzitutto il cinema di finzione sia più patriarcale rispetto al documentario. Ricordo che a 20 anni facevo fatica a lavorare con i fonici, i cameraman uomini (più grandi di me), perché non accettavano la mia autorità, ma adesso i rapporti sono cambiati. Diciamo che il “comando” storicamente è sempre appartenuto a una figura maschile e il cinema è gerarchico ed ha bisogno della gerarchia, invece il documentario è meno strutturato e dunque non si ha questo tipo di problema. Effettivamente se penso al cinema documentaristico italiano mi vengono in mente più autori uomini, a differenza del cinema francese, forse perché le donne in Italia scelgono (chissà, forse inconsciamente) di essere presenti più nella fase di montaggio dei film, rispetto alla regia.
Che consigli potresti dare a una documentarista esordiente di vent’anni, oggi?
Oddio, se dovessi consigliare un’aspirante regista ventenne sarei un po’ combattuta! Nel senso che di questi tempi con questo bombardamento di immagini, questa viralità diffusa di personaggi, dove tutti sono diventati un po’ i registi della propria immagine, non è facile trovare qualcuno che si fermi a riflettere sul significato dell’immagine, sulla memoria, sul periodo storico. I social, per esempio, hanno portato a una sorta di inflazione di immagini, ma c’è sempre bisogno di chi dedica tempo e spazio appositamente alla ricerca e alla costruzione del visivo… e poi lo sguardo femminile è diverso da quello maschile. In ogni caso, il mestiere della documentarista ti porta ad avere altri lavori più monetari, perché, anche se un documentario arriva al cinema, il risultato del botteghino è sempre un po’ ridotto, limitato. Se guardo la Francia, come modello, è sempre troppo poco quello che c’è in Italia. Per quanto riguarda la questione di genere, penso che il problema del documentario in questo Paese non sia inerente a ciò, ma sia più un problema sociale e culturale, intrinseco al documentario che però si riversa sulle categorie più “sfigate”, in questo caso quella femminile. Per fare un esempio, penso che un autore debba essere libero, in quanto è creatore dell’opera d’arte che è poi il prodotto cinematografico, un po’ come accade in Francia, invece in Italia c’è il problema dei fondi pubblici che toglie la libertà e il senso di questo lavoro.
Hai mai pensato di iniziare a girare delle fiction?
Un punto di riferimento molto forte per me, durante gli anni di studio del cinema, è rappresentato da Alina Marazzi (dei suoi documentari il mio preferito è “Un’ora sola ti vorrei”), nonostante ciò non escludo che mi possa piacere – chissà in futuro – un approccio nei confronti del cinema di finzione, ma preferisco ancora dedicarmi al genere documentario. Mi piacerebbe rivolgere l’attenzione alla fiction solo quando avrò finito di sperimentare tutto quello che si può fare con il documentario, cioè quando sarò riuscita a esprimermi come ho sempre desiderato.
“Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente” eppure “le donne sono la colonna vertebrale della società” affermava la straordinaria Rita Levi Montalcini. Pensi ci sia un modo efficace per superare la disparità tra uomo e donna in ambito cinematografico?
Credo che la disparità tra uomo e donna vada di pari passo con i cambiamenti della società, alla fine il cinema è un po’ lo specchio della società. Le opere influenzano l’immaginario collettivo e la percezione in sé del femminile e del maschile. Questo è un tema molto complesso e a mio modesto parere credo sia riduttivo, oggi, parlare della visione femminile e di quella maschile, sarà forse dovuto al fatto che io sono per la fluidità di genere. Mi chiedo da cosa possa essere dato uno sguardo femminile o maschile… a chi la scelta? al gender? al sesso? Forse anche no! Perché poi, ci si chiede, per i transessuali come potrebbe essere? In realtà questo è un tema che non tratto nella mia ricerca, però mi piacerebbe ad esempio sapere come si è evoluto il festival di Sguardi Altrove, questa rassegna di film importanti a regia femminile, che tratta di un femminile in senso lato.
(a cura di Francesca Fracasso)