8 registe da (ri)scoprire

Collage di 8 registe: Elvira Notari, Lina Wertmüller, Kathrin Bigelow, Fabiana Sargentini, Selma Vilhunen, Zeina Daccache, Anna Biller e Emma Benestan.

In preparazione alla 31esima edizione di Sguardi Altrove, abbiamo curato una selezione di 8 registe da (ri)scoprire per amare il cinema diretto da donne, attingendo agli sguardi del passato e a quelli del presente.

1.   Elvira Notari

Elvira Notari incarna perfettamente il pionierismo del cinema al femminile: sceneggiatrice, documentarista, attrice e produttrice, è riconosciuta come una delle prime registe al mondo e come precorritrice del Neorealismo.

Nata a Salerno nel 1875, conosce il cinema a Napoli e nel 1903 inizia già a riprendere gli scorci campani. L’autonomia della cinepresa è poca (appena qualche secondo), ma presto la voglia di realizzare qualcosa in più convince Elvira a compiere il passo successivo.

Nel 1906 fonda insieme al marito la Dora Film, da subito capace di distinguersi nel mercato per gli esperimenti di colorazione sulle pellicole e la sincronizzazione delle immagini con musica e canto dal vivo.

Il cinema di Elvira, lontano dalle impostazioni estetiche, girato nei vicoli partenopei invece che negli studi di posa e raccontato da compaesani ben lontani dalle rigidità dei divi del muto, conquista presto con il suo spirito neorealista anche il pubblico americano.

La Dora Film sbarca così a New York, dove riscuote il suo maggior successo: quando l’ascesa del regime fascista impone una ferrea censura sui film di Notari, ricchi di eroine insofferenti al patriarcato e di critiche sociali additate in quanto “anti-nazionaliste”, è l’esportazione clandestina dei suoi film a Little Italy a garantirle ancora qualche soddisfazione prima del ritiro nel 1930.

Nel 2019 Sguardi Altrove ha omaggiato Elvira Notari durante la rassegna “Le pioniere del cinema europeo”, con la proiezione di alcuni dei suoi titoli più noti, tra cui E’ piccerella (1922) e  ‘A santanotte (1922), e frammenti inediti curati dalla Cineteca Nazionale.

 

2.  Lina Wertmüller

Nata a Roma nel 1928, a 17 anni frequenta l’Accademia d’Arte Drammatica Pietro Sharoff, dedicandosi negli anni successivi alla regia per il teatro dei burattini della nota collezionista Maria Signorelli.

La sua avventura cinematografica inizia come aiuto regista, ruolo nel quale affianca anche Fellini per le riprese de La dolce vita (1960) e 81/2(1963).

Nello stesso periodo dirige il suo esordio, I basilischi (1963), di cui cura anche soggetto e sceneggiatura: la storia, ispirata a una visita di Wertmüller nelle terre del padre, racconta la vita di un piccolo paese della Puglia, seguendo un giovane trio abbattuto dall’apatia e dal provincialismo che li circonda.

Dopo il western all’italiana Il mio corpo per un poker (1968), diretto con Elsa Martinelli e il lavoro come autrice per la prima edizione di Canzonissima (1969), a inizio con gli anni Settanta la stagione più prolifica di Wertmüller, che sceglie come suoi attori-feticcio Mariangela Melato e Giancarlo Giannini.

É il periodo di Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), Film d’amore e d’anarchia (1973), Travolti da un insolito destino… (1974) e Pasqualino Settebellezze (1976); quest’ultimo ottenne 4 nomination all’Oscar, tra cui quella storica di Wertmüller come prima donna in corsa per il titolo di Miglior Regista.

Dall’esordio con I basilischi, il suo cinema assume sempre più un taglio dichiaratamente politico, spesso dalla vena ironica: i protagonisti delle sue opere lottano infatti per difendere le loro origini e rivendicare la propria classe d’appartenenza, incarnando lo specchio di una società italiana amara e divisiva.

Fondamentale è però non solo il discorso di classe ma anche quello patriarcale.

Wertmüller elabora coppie di uomini e donne che faticano a trovare un equilibrio nella relazione con l’altro, a causa della mascolinità tossica della tradizione italiana. Con pari interesse la regista racconta il rapporto di entrambi i sessi verso questa condizione sociale, mostrando da una parte l’arretratezza degli atteggiamenti dell’uomo patriarcale e dall’altra le possibilità di riscatto per la voce femminile.

Nel 2022, due anni dopo l’assegnazione dell’Oscar alla carriera, Sguardi Altrove ha reso omaggio alla regista italiana con il Premio alla carriera postumo, ritirato dalla figlia Maria Zulima e dedicandole una rassegna inaugurata da Dietro gli occhiali bianchi (2015), documentario sulla carriera di Wertmüller diretto da Valerio Ruiz.

 

3. Kathryn Bigelow

Nata in California, Bigelow intraprende gli studi di cinema alla Columbia University dopo una breve carriera come pittrice; qui gira il suo primo corto, The Set-Up (1978), un video-saggio sulla fascinazione nei confronti della violenza nel cinema, riscuotendo l’approvazione del regista ceco Miloš Forman.

Sebbene il debutto nel lungometraggio avvenga con The loveless (1981), è la produzione successiva Near dark (1987) a segnare il percorso artistico di Bigelow: il film, una rilettura della figura vampiresca in chiave western, rappresenta il primo esempio di una fascinazione della regista americana verso la manipolazione del medium, delle sue convenzioni e dei suoi generi.

Una fascinazione che ritroviamo infatti in Strange days (1993), uscito qualche anno dopo il grande successo commerciale di Point break – Punto di rottura (1991, con protagonisti Patrick Swayze e Keanu Reeves).

Nonostante Strange days non riscuota la stessa approvazione dal botteghino, la regia di Bigelow è qui all’apice della sua creatività: il risultato è un mix di generi (dal thriller al noir fino ai caratteri del cyberpunk), capace di sfruttare al massimo le riprese in soggettiva per interrogare i temi più svariati, dall’abuso di potere al razzismo.

Nel 2010 Bigelow sceglie invece una tecnica più classica per The hurt locker, con cui passa alla storia diventando la prima regista a vincere l’Oscar per la Miglior Regia.

Dopo il successo di Zero Dark Thirty (2012), action thriller con protagonista Jessica Chastain incentrato sulle operazioni di cattura del leader di Al-Qaeda, Bigelow sarebbe ora in fase di pre-produzione per un nuovo film targato Netflix, Aurora.

Il film, adattato dal romanzo omonimo di David Koeppe, segue <<le conseguenze di un cataclisma mondiale nelle vite di una complicata famiglia del Midwest>>.

 

4. Fabiana Sargentini

10 anni fa Sguardi Altrove presentava fuori concorso Non lo so ancora di Fabiana Sargentini, primo lungometraggio della cineasta romana già vincitrice nel 2005 con il documentario Di madre in figlia.

Regista e sceneggiatrice nata nel mondo dell’arte grazie alla madre Anna Paparatti, pittrice e performer ed al padre Fabio Sargentini, regista e gallerista, Fabiana scopre nel cinema il linguaggio ideale in cui riversare la sua creatività, trovando nella scrittura <<un’espressione dell’anima>> da trasformare in immagine, attingendo a quella cultura visiva maturata tramite i genitori.

Nella sua carriera Sargentini si è sempre destreggiata tra generi e formati: all’esordio al Sacher Festival di Moretti partecipa con il corto in Super8 Se perdo te (1998), autobiografico racconto tragicomico della fine di una storia d’amore, di cui è anche interprete.

Dal 2000 si dedica invece al documentario: sono gli anni di Sono incinta (2004), Ciro e Priscilla e del già citato Di madre in figlia (2005), con il quale porta al nostro festival la storia del coro femminile de Le Mondine di Novi tra gli anni della guerra, della lotta e dell’indifferenza.

Per il suo primo lungometraggio Non lo so ancora Sargentini collabora con Morando Morandini per raccontare 24 ore nella vita di due estranei uniti dalla stessa angosciante attesa: attraverso Giulia (Donatella Finocchiaro) ed Ettore (Giulio Brogi), Sargentini e Morandini descrivono vividamente i conflitti e le differenze generazionali, partendo dalla loro personale esperienza.

Oggi, a distanza di 20 anni dal documentario Tutto su mio padre, Fabio Sargentini, la regista torna per raccontare la vita e le opere della madre in La pitturessa, presentato in prima mondiale alla Festa del Cinema lo scorso ottobre. Il film sarà distribuito nelle sale da febbraio per Lo Scrittoio.

 

5. Selma Vilhunen

Nata a Turku, in Finlandia, Vilhunen scrive e dirige documentari e film dal 1998, anno in cui ha iniziato i suoi studi di cinema alla Turku Arts Academy.

Dopo aver debuttato alla regia con il film per la tv Pietà (2007), in cui racconta la <<tragedia di diventare umani, colorata da un po’ di amaro humor>>, co-fonda nel 2010 la casa di produzione Tuffi Film.

Nel 2012 dirige il corto Do I have to take care about everything? , scritto dalla sceneggiatrice e futura collaboratrice Kirskikka Saari, una commedia che racconta una mattina nella vita di una mamma tutto-fare  e che perfettamente si inserisce nel filo rosso della sua produzione, da sempre <<interessata a studiare le debolezze e i punti di forza [delle persone]>>. Il film ottiene la nomination agli Oscar come Miglior Corto Live Action, diventando il secondo film finlandese di sempre ad entrare in corsa per l’ambita statuetta d’oro dopo L’uomo senza passato (2002) di Aki Kaurismäki.

Nel 2016 esordisce nel lungometraggio con Little wing, presentato da noi in concorso nel 2017, in cui il suo stile marcatamente documentario le consente di trattare con delicatezza la storia di un rapporto disfunzionale tra madre-figlia.

Segue poi nel 2018 Stupid young heart, un dramma <<crudo e sopra le righe>> sulla gravidanza adolescenziale, scelto come rappresentate agli Oscar per la Finlandia.

Nel 2023 è prevista l’uscita nelle sale finlandesi del suo nuovo lungometraggio, Four little adults, un film sui rapporti poliamorosi con il quale Vilhunen ha nuovamente modo di indagare il mondo delle relazioni umane, portando questa volta lo sguardo su una realtà ancora in cerca della giusta rappresentazione.

 

6. Zeina Daccache

Nata a Beirut, in Libano, Daccache ha coltivato nella sua vita diverse carriere, spinta al cambiamento dalla volontà di dare voce attraverso l’arte agli esclusi e agli oppressi dalla legge libanese.

Dopo un inizio di carriera come attrice, Daccache si trasferisce negli Stati Uniti per ottenere la certificazione di Drama Therapist, specializzazione non ancora disponibile nel mondo arabo, con lo scopo di portare il teatro a chi non può frequentarlo, in modo da mostrarne le potenzialità espressive e terapeutiche.

Una volta terminati gli studi, decide di portare questa forma di terapia nelle prigioni libanesi, parte di un sistema carcerario rigido e non adeguatamente legislato.

Dalle sessioni di Daccache nasce la sua prima regia, 12 angry lebanese (2009), documentazione della prima produzione teatrale interamente interpretata da carcerati: il successo mondiale del film, premiato nel 2011 anche a Sguardi Altrove, contribuì all’approvazione della legge libanese a favore della riduzione di pena per buona condotta, in stallo dal 2002.

Dato il successo di questo primo documentario, Daccache decide di continuare a riprendere alcuni dei suoi lavori in modo da creare delle testimonianze tangibili a loro supporto.

Nel 2013 realizza Scheherazade’s diary, in cui documenta il processo di creazione e scrittura di una piece basata sulle vicissitudini delle carcerate della prigione di Baabda, in cui la condivisione diventa non solo un momento terapeutico ma anche di riflessione, portando l’attenzione sull’oppressione a cui le donne sono sottoposte nella società libanese.

Nel 2021, Daccache completa questa trilogia ideale con un ultimo documentario, The blue inmates, basato su un opera scritta dai prigioneri di Roumieh in merito ai loro compagni condannati all’ergastolo perché ritenuti “pazzi o posseduti” dal sistema penale per le loro malattie mentali.

 

7.  Anna Biller

Nata a Los Angeles, durante gli studi inizia a sperimentare con alcuni corti in 16mm avendo come mentore il rinomato regista sperimentale Morgan Fisher.

Il primo risultato di queste esplorazioni è Three examples of myself as queen (1994), un horror celato dalla patina del musical in cui spiccano già numerosi elementi del cinema di Biller: colori sgargianti da Technicolor (ispirati ai dipinti del padre), costumi iconici (influenzati dalle creazioni della madre, fashion designer), ricche produzioni musicali e una passione per le figure e i generi della vecchia Hollywood.

Biller si considera sin dagli inizi una regista femminista, decisa proprio a rivisitare e sovvertire gli stereotipi del cinema classico nato sotto al male gaze, creato quindi dagli uomini per gli uomini.

Su questa linea sviluppa nel 2007, dopo il successo di alcuni corti (The hypnotist e A visit from a Incubus), il suo primo lungometraggio Viva, storia di un’annoiata casalinga desiderosa di esplorare nuove relazioni durante la rivoluzione sessuale degli anni ’70.

Come in altri suoi progetti, Biller non cura solamente la regia dell’opera, occupandosi infatti della sua scrittura, del montaggio e della creazione dei costumi, vestendo infine i panni della protagonista. Il film ricostruisce in modo minuzioso l’immaginario perpetuato dai film di sexploitation degli anni Settanta, per prendersene perfettamente gioco.

Nel 2016 esce nelle sale il suo secondo lungometraggio The love witch, girato in 35mm, in cui ammicca alle protagoniste dei film targati Hammer, storica casa di produzione horror: qui la loro carica erotica diventa tale da rendere Elaine, la strega del titolo, una vera e propria serial killer capace di agire attraverso seduzione e incantesimi d’amore.

Al momento la regista sta lavorando al suo prossimo progetto, The face of horror, un racconto ispirato alla tradizione giapponese del Kaidan le cui storie narrano il ritorno dei defunti nella forma di spiriti in cerca di vendetta; sul suo blog personale (annabillersblog) la regista ha condiviso nel 2022 alcune anticipazioni sulla trama e un moodboard che già lascia intuire il ritorno dell’ormai “tipico” stile billeriano.

 

8. Emma Benestan

Di origini franco-algerine, Benestan sogna la regia da quando a dodici anni vide con suo padre Lo specchio della vita di Douglas Sirk: <<un’opera […] che mi ha commosso, ed ha aiutato una ragazzina […] a sentirsi meno sola>>.

Dopo aver studiato montaggio a La Fémis ed avere lavorato nella post-produzione de La Vie d’Adèle (2013), si cimenta nella regia con una serie di cortometraggi. Tra questi, riscuotono grande successo Goût bacon (2016), uno sguardo sui tabù e le difficoltà adolescenziali ai tempi dei social media e Belle gueule (2015), un delicato coming of age raccontato attraverso il rapporto padre-figlia e che vede come protagonista l’attrice franco-marocchina Oulaya Amamra.

L’incontro con Amrara segna per Benestan l’inizio di un fortunato sodalizio: nel 2021 la sceglie come protagonista del suo primo lungometraggio, Hard shell, soft shell, una commedia romantica sulla rinascita dei cuori infranti; il film è stato premiato nel 2022 con il Premio WIFTMI di Sguardi Altrove, dove è stato presentato in concorso con il titolo Fragile.

Sempre nel 2021, Benestan approda a Cannes in concorso come co-sceneggiatrice per il corto The right words, poi in nomina anche al Sundance, nel quale si confronta nuovamente con l’amore adolescenziale.

Nel 2023 ha scelto nuovamente Amrara per il lungometraggio Animale, prima incursione della regista nelle tinte dell’horror; del film è stata rilasciata per il momento una prima sinossi: << dopo essere stata importunata ad una festa, [una donna] inizia a notare alcuni disturbanti cambiamenti, mentre [la città viene scossa] da una serie di omicidi le cui vittime sono tutte giovani uomini>>.

Prodotto da Frakas Production, già conosciuta per il body horror di Julia Ducournau Titane (Palma d’Oro nel 2021), il film uscirà nel 2024.